Salento,
terra di sole e di mare, di storia e di confini violati. Terra
affiancata ad oriente e adagiata all’ombra degli ulivi. E’ qui che
il clima favorisce le colture dei prodotti particolari e la rigogliosa
crescita delle erbe tipiche della macchia mediterranea come:
rosmarino, salvia, timo e maggiorana. E’ qui che la cucina del
territorio, fatta di pentole di coccio e di “tajèddhe”, conserva
i tratti della civiltà contadina. Una cucina che lega i prodotti del
mare e della terra in una perfetta commistione di gusti, una cucina
che è mediterranea, ad alto potere nutrizionale, d’intensi profumi,
vivaci colori ed inconfondibili sapori. Anche qui come nel resto della
penisola, l’olio e il vino restano senz’altro gli elementi
fondamentali dell’intera economia salentina. Non mancheranno i
latticini e formaggi pecorini, specialità locali come la “ricotta
scànta” e la “burrata”. Simbolo della gastronomia salentina è
la pasta di ceci tipica del leccese, “ciceri e tria “un piatto
inconfondibile di gusto contadino e sapore antico. Accanto al discreto
allevamento di agnelli e conigli un posto di rilievo è occupato dalla
carne di cavallo, da sempre indiscussa protagonista delle tavole
salentine per la favolosa “pignata”, piatto forte e prelibato
piccante e rosso come il fuoco. Polpette ed involtini restano poi il
cibo della festa protagonisti indiscussi delle sagre paesane, fiere e
feste patronali.
Feste
religiose e sagre popolari, storie di escursioni, leggende e
pregiudizi, convivono in una sorta d’inventario divenuto in verità
sempre più labile all’urto della vita moderna.
In
ricorrenza delle feste ricompaiono dolci e pietanze speciali, tra i
primi è diffusa la “cupeta” o croccante a base di miele e
mandorle. Tra le pietanze si ricorda la parmigiana di melanzane,
consumata nel giorno della festa di S. Oronzo, patrono di Lecce;
“ciciri e tria” è una minestra devozionale a base di pappardelle
fatte in casa, cotte insieme ai ceci, cui si aggiunge una manciata di
pasta fritta simboleggiante i trucioli di legno di S. Giuseppe che è,
infatti, il patrono dei legnami.
In
coincidenza delle feste patronali o d’alcune ricorrenze stagionali
si svolgono le fiere: mercati originariamente legati ad un’economia
agricola che offrono prodotti e attrezzi rurali, nonché bestiame.
Un’opportunità
per trascorrere il tempo libero, è data alle sagre che,
nell’originaria ispirazione prevalentemente religiosa,
rappresentavano un momento di svago e divertimento collettivo.
Attualmente
sono più che altro un preteso per consumi gastronomici di prodotti
tipici locali (angurie, vino, pesce ecc.…) e anche della loro
vendita.
Le
tradizioni della cucina sono varie: “Penne e zite allu furnu”
(ripiene di polpettine, ragù al pomodoro e pecorino), “ a pignata”
(preparazione in umido), “pecureddhu” (agnello) preparato in vari
modi, al forno con le patate, arrostito ecc. L’agnello si prepara
anche con zucchero e mandorle (pasta di mandorle) e si consuma il
giorno di Pasqua insieme alle uova di cioccolato.
Dopo
la domenica di Pasqua vi è la “pascareddha” (pasquetta), giorno
in cui si va in campagna a fare merenda nonostante ciò che si
possiede in casa: peperoni, pomodori, melanzane ecc.….
Con
il rito della visita ai sepolcri, si entra nel vivo della celebrazione
della settimana santa.
Un
appuntamento al quale partecipa tutta la cittadina di Gallipoli è la
processione del Cristo morto e dell’Addolorata, costituite dalle
rispettive Confraternite della Chiesa del Crocifisso e della Madonna
degli Angeli.
La
prima concorre con la statua del Cristo deposto in un’urna di oro
zecchino, preceduta dai confratelli incappucciati e con una corona di
spine sul capo; la seconda con i suoi confratelli è la statua
dell’Addolorata. La processione comincia intorno a mezzogiorno e
termina a notte inoltrata dopo essersi snodata per le stradine del
centro storico, accompagnata dal cupo rullare del tamburo e dal suono
lamentoso di una tromba. Quando rientrano le due processioni, del
Crocifisso e degli Angeli, esce quella della chiesa della purità coi
penitenti (persone incappucciate e scalze che sfilano portando sulle
spalle una croce di legno oppure pietre appese al collo delle
cosiddette “pisare”: espiano colpe e peccati flagellandosi con una
frusta).
Tra
le tante usanze bisogna ricordare quelle estive: a Torre Paduli (Ruffano)
la notte di Ferragosto i pescatori danzano sotto le stelle imitando
antiche lotte a ritmo vorticoso dei tamburelli (danza delle spade, uno
degli ultimi riti superstiti del Salento misterioso e sfuggente)
Il
tarantismo ha origini più antiche, che si rifà ad antecedenti riti
pagani e dai culti orgiastici della Magna Grecia. Un fenomeno che ha
avuto la sua area elettiva qui nel Salento, ( nel circondario di
Galatina), prima che l’etnologo Ernesto De Martino analizzasse il
fenomeno in “la terra del rimorso”. Il tarantismo era
esclusivamente collegato al morso della tarantola che provoca
nell’individuo colpito, una crisi pseudo- isterica placata con
insolite terapie attraverso un simbolismo musicale. Pregando S. Paolo
e bevendo acqua “miracolosa” di un pozzo esistente nella cappella
a lui intitolata nei pressi della piazza di Galatina, le tarantate si
liberavano non dal veleno, ma da tutti i loro conflitti psichici
irrisolti.
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